Pambianco Design – 18 marzo 2020
Massimiliano Locatelli: “Disegno un sogno ed è già realtà”

Massimiliano Locatelli dimostra che l’architettura è materia viva e in perenne mutamento. Ma, soprattutto, è lo strumento privilegiato per far dialogare passato e tradizione con le esigenze del vivere contemporaneo: nei contesti pubblici come negli spazi privati.

Preciso, esigente, curioso e autoironico: Massimiliano Locatelli è un professionista poliedrico e, in un certo senso, quasi “rinascimentale”, proprio per il suo essere architetto aperto all’esplorazione degli ambiti estetici più diversi. Socio fondatore nel 1993 dello studio Locatelli Partners e PhD alla Columbia University di New York, è fra i progettisti italiani più influenti a livello internazionale, celebre per il minimalismo rarefatto, l’amore per l’arte e lo spirito d’avanguardia che ispirano tutte le sue realizzazioni. Autore di interventi in luoghi storici di Milano e di realtà ad alto contenuto d’innovazione (come un’abitazione costruita con una stampante in 3D), ha esportato il gusto italiano in tutto mondo, da New York al Vietnam, da Parigi a Mumbai, firmando spazi pubblici, negozi, ristoranti, hotel e residenze private.
Il nuovo studio milanese di Locatelli in via Corridoni – 800 metri quadrati ospitati in una palazzina fresca di restauri nel Parco del Collegio delle Fanciulle – è un atelier pieno di luce, che divide con i soci Davide Agrati, Giovanna Cornelio e Annamaria Scevola. Ed è qui che ci racconta come è iniziata la sua avventura.

Qual è stato il primissimo progetto?
Un amico mi aveva chiesto di ristrutturare il suo appartamento e io, che mi ero appena laureato, ho proposto a Giovanna e Annamaria, che già conoscevo, di lavorare insieme. Questo è stato il primo banco di prova.

Cosa significa, oggi, “fare architettura”?
Sono convinto che il lavoro dell’architetto sia particolarmente complesso perché ha delle logiche ma anche delle “non logiche”, ha un aspetto di coinvolgimento emotivo molto forte e una parte razionale che è altrettanto importante. È un mestiere che si mescola in modo molto stretto con la vita. Le cose che fai, come progettista, le metti nelle mani del committente e le lasci andare: sono un po’ come dei figli. Ed è interessante vedere come ognuno abbia la propria personalità e possa imboccare nel tempo strade imprevedibili. Ecco perché dico che architettura e avventura sono mondi fra loro molto affini.

Qual è il peso dell’arte all’interno dei progetti?
Oggi l’architettura tende a influenzare l’arte in modo più pregnante rispetto al passato. Per esempio: ho qui davanti a me un’opera di Jonathan Binet, assistente di Oscar Tuazon, uno degli artisti che più si è nutrito di elementi di architettura. La cornice è costruita con frammenti di ferro grezzo, quei profili usati nei cantieri saldati tra loro; il quadro, una volta realizzato, è stato tolto e tagliato perché ciò che importa è la cornice, la struttura architettonica: chiamiamola la parte hard dell’opera. Di sicuro il lavoro dell’artista è più solitario, più introspettivo e in fondo anche più egoista, perché ha dalla sua parte il vantaggio di una libertà assoluta, che manca a noi architetti, che abbiamo sempre come riferimento una committenza. Eppure artisti e architetti si capiscono al volo e lavorano magnificamente insieme: anni fa mi è capitato di realizzare a New York un appartamento, di gusto Upper Side, che era di per sé raffinatissimo, ma quando l’arte è entrata in casa l’energia dello spazio è cambiata radicalmente.

Cosa fa di un’architettura un’opera d’arte e di un architetto un artista?
L’architetto non è un artista e l’architettura non è arte ma quando entrano in contatto la sinergia diventa totale. L’architettura è un’espressione estetica e funzionale, l’arte è energia pura, non ha confini, mentre l’architettura ne ha tanti. Per questo sono e resteranno dei mondi distinti.

Qual è il messaggio che un progetto deve saper esprimere?
Un buon progetto deve essere compiuto, e per “compiuto” intendo che siano soddisfatti il committente come pure l’architetto. E poi, non ultimo, ci deve guadagnare anche lo spazio occupato dal progetto, perché quando disegno una casa o affronto un restauro, devo aver ben presente che il mio intervento rimane. E i luoghi vanno sempre rispettati e salvaguardati dal punto di vista estetico.

Come si gestisce il rapporto con la committenza?
È corretto rispettare il committente, ma è necessario anche rispettare il luogo e l’ambiente. Questi tre elementi sono fondamentali e, secondo me, sono quelli che dovrebbero diventare le linee guida di qualunque progetto. Se lavoro Milano di fronte a un parco meraviglioso, allora disegnerò un edificio in cui le aperture avranno la parte del leone; se devo confrontarmi con un edificio di Gio Ponti, allora, che sia per opposizione o per analogia, mi muoverò con un intervento di dialogo e di ricucitura più delicato. L’architettura – non si può mai dimenticarlo – è un segno che resta.

Cosa c’è in cantiere per il prossimo Salone del Mobile?
Ho sul tavolo diversi progetti: dei mobili per la Galleria Nilufar, sempre in edizione limitata, due lampade con Nemo, una serie di arredi per Gebrüder Thonet Vienna e, per B&B Italia, una nuova immagine dell’azienda. Sono in contatto anche con la Cina, con una storia che vorrei presentare al Salone: sto realizzando per loro dei grandi pavimenti di porcellana, delle piastrelle che arrivano a un formato di m. 3×2, prodotte a Shenzhen da una grande azienda che realizza 6omila metri quadri di pavimenti al giorno, e anche lì stiamo operando sia sul tema della sostenibilità che su quello dell’immagine. È stato interessante vedere la loro reazione di fronte alle mie proposte: abbiamo sì lavorato sul marmo, che per loro è un materiale molto importante, ma l’abbiamo reso “morbido”. Lo abbiamo stampato su un grande telo, quindi gli abbiamo impresso un movimento, lo abbiamo fotografato e lo abbiamo ristampato: il risultato è il Cristo Velato. Il drappo di marmo chiaramente non è marmo, ma c’è tutta un’altra profondità: è il racconto di un drappo rinascimentale gettato a terra per diventare un pavimento sul quale si cammina come sulle nuvole. In pratica, abbiamo lavorato sulla forza emotiva ed evocativa del materiale. È una filosofia simile a quella che stiamo seguendo con B&B Italia.

Continua la collaborazione con Nina Yashar di Nilufar che si muove a cavallo tra arte e design. Qual è il rapporto fra questi due mondi?
Nilufar non è arte: è design. La ricerca che Nina fa con i giovani designer, e anche con gli autori del passato, è molto puntuale e meticolosa, ma non è arte. Lei è comunque bravissima a plasmare il design all’interno di situazioni estreme, sia per ricerca sui materiali che per la sperimentazione di forme.

Da settembre è in libreria Locatelli Partners Dialogues: Architecture Interiors Design edito da Rizzoli International, un volume che è un viaggio attraverso i lavori dello studio. Quale il fil rouge che li lega?
Ho avuto la fortuna di aver incontrato, nel corso degli anni, dei committenti illuminati e diversificati, che dal Vietnam alla Cina all’America mi hanno permesso di poter fare una ricerca ad ampio spettro: quando si è davvero consapevoli del contesto in cui si opera, anche lo studio dei materiali, delle tecniche e del modo migliore per utilizzarle diventa una parte fondamentale del nostro lavoro. In Vietnam, per esempio, ho conosciuto artigiani abilissimi, che hanno realizzato oggetti con una maestria e una precisione che ormai da noi sarebbero impensabili. Mi hanno realizzato dei tavoli fatti con un pezzo unico di marmo intagliato e lucidato tutto a mano, che in superficie sono morbidi come il velluto… La forma è quella del tavolo di plastica che invade tutte le strade dell’Oriente: il modulo base di ogni bar. È un archetipo contemporaneo che, nobilitato con un materiale tradizionale e sostenibile, ha reso magico e prezioso un arredo di uso comune.

Tradizione e innovazione: come dialogano fra loro oggi, in un contesto storico in cui i tempi della tecnologia sono sempre più rapidi?
Sono sempre due linee guida importantissime: la tradizione è ciò che ci porta ad avere consapevolezza del nostro passato e del nostro background, ma guardare davanti è la molla che ci spinge a innovare e a non ripetere sempre il medesimo modello.

Com’è stata l’esperienza a San Paolo Converso, in piazza Sant’Eufemia a Milano, la chiesa sconsacrata del ‘500 dove avete avuto il vostro studio fino allo scorso anno?
La chiesa è un luogo unico nel suo genere, che adesso continua con Converso, uno spazio espositivo dedicato all’arte del nostro tempo. Lavorare in un contesto del genere è stato affascinante e al tempo stesso complicato: eravamo separati dal mondo esterno, si viveva come in una bolla, e la luce artificiale aveva su tutti noi un effetto quasi straniante. A me non dava fastidio, ma capisco che non è per tutti così: ci sentivamo come astronauti ospiti di una navicella spaziale che fluttuava nello spazio e, quando si usciva, si riprendeva contatto con la realtà.

Mostre in programma in questi spazi?
Abbiamo inaugurato da poco una mostra dell’inglese Michael Dean. Per il Salone, invece, abbiamo avviato una partnership con un designer-artista che potrà esprimersi all’interno dello spazio con un lavoro site specific. C’era anche l’idea di fare un’altra mostra, che con tutta probabilità sarà posticipata a settembre: è un’indagine sul design africano, che reputo fondamentale per l’utilizzo dei materiali e per l’approccio al design. Stiamo facendo una ricerca approfondita con una curatrice esperta e non ce la sentiamo di arrivare in corsa per la Design Week.

Quanto contano tecnologia, ricerca e sostenibilità nel lavoro di un architetto?
Tantissimo. Penso alla casa 3D che abbiamo terminato due anni fa: era proprio basata su tecnologia e sostenibilità, intesi come ingredienti imprescindibili per dare vita a un’abitazione pensata per il futuro. Stiamo continuando a lavorarci per renderla più fruibile, ma è un lavoro complesso. A breve dovremmo curare anche il restyling di un palazzo in via Senato e mi piacerebbe abbatterlo e ricostruirlo tutto stampandolo in 3D. Purtroppo sono otto piani e non siamo ancora pronti. Il problema è l’altezza.

Quali sono gli strumenti del progettista contemporaneo? La matita, il computer, un plastico o cos’altro?
Di solito si parte da un mood board in cui si lavora con suggestioni, con parole o immagini di riferimento, vecchie e nuove. Prima del “fare”, deve esserci sempre un momento fondamentale di meta progetto, di pensiero e di confronto. Credo che sia questa la fase più importante, e non bisogna mai avere fretta di concluderla.

E oltre al lavoro, che cosa c’è?
Amo il rapporto con le persone con cui ho collaborato, dal muratore al fabbro. Mi piace anche sporcarmi le mani e i vestiti con la polvere dei cantieri e poter constatare come in fondo, al di là del ruolo di “direttori d’orchestra” svolto dagli architetti, questo rimanga un mestiere di uomini e di passioni. Nel mio lavoro la verità è molto importante: è la mia bussola nel rapporto con clienti, colleghi, manovalanze e, a maggior ragione, è la base delle relazioni interpersonali.

Il sindaco Beppe Sala vede nel futuro di Milano altri importanti interventi di “rigenerazione urbana”. Cosa ne pensa?
Dopo tanti anni, è la prima volta che Milano è diventata un importante punto di riferimento a livello europeo. Lo era già in quanto polo della moda e del design, ma adesso siamo andati ancora oltre. E questo grazie al sindaco, grazie alle persone che lavorano oggi e grazie anche a tutti coloro che si sono dati da fare in passato: i nostri genitori, i nonni, chi è arrivato qui dalla provincia attratto dalla grande energia che si respira a Milano, ha coltivato un atteggiamento serio – direi quasi calvinista -verso il lavoro, e non ha mai avuto paura di rimettersi in gioco. Ecco, credo che la rigenerazione urbana cui allude Sala, al di là delle grandi opere architettoniche e dei cantieri ancora aperti, possa proseguire soprattutto grazie alle persone che vivono e fanno vivere Milano: la gente comune e la gente che crea, progetta, costruisce, sperimenta.

All’interno del grande Rinascimento milanese, c i sarà un nuovo intervento di Locatelli Partners?
Probabilmente inizieremo a lavorare sulla torre Velasca. Questo edificio icona diventerà uno dei punti di forza del grande cambiamento già avviato a Milano e, in un certo qual modo, incarnerà il nuovo atteggiamento nei confronti della metropoli: un capolavoro della prima modernità che indosserà degli abiti completamente nuovi. Questo vuol dire far dialogare la tradizione con il futuro. Con rispetto e leggerezza.

di Monica Montemartini